SPINA TREMULA
MOSTRA FOTOGRAFICA DI MARIO SPADA E GAETANO IPPOLITO
A SCAMPIA “SPINA TREMULA”, LA MOSTRA FOTOGRAFICA DI MARIO SPADA E GAETANO
IPPOLITO
Dal 24 ottobre al 15 gennaio 2025 sarà possibile visitare gratuitamente la
mostra fotografica dal titolo “Spina tremula” di Mario Spada e Gaetano Ippolito,
allestita negli spazi del centro Chikù. La mostra, curata da Chi rom e…Chi no e
finanziata dal Comune di Napoli nell’ambito della programmazione di arte
contemporanea 2024, vedrà il coinvolgimento di 15 giovani della città in un
laboratorio di narrazione e sulla fotografia stenopeica condotto da Mario Spada.
Giovedì 24 ottobre è stata inaugurata presso il centro Chikù a Scampia, in Largo
della Cittadinanza Attiva, la mostra fotografica di Mario Spada e Gaetano
Ippolito dal titolo “Spina Tremula”, nata da una idea di Chi rom e…Chi no e
Mario Spada e promossa e finanziata dal Comune di Napoli nell’ambito della
programmazione di arte contemporanea 2024.
La mostra intreccia e mette in dialogo le fotografie dei due autori, due sguardi
sulla città di Napoli che attraversano trenta anni di storie, strade, persone,
piccole fatiche quotidiane, grandi eventi. L’esperienza di lungo corso del
fotografo Mario Spada, che con la sua fotografia racconta con precisione e cura
i molteplici mondi in cui si immerge, creando una forte relazione tra le
immagini, i suoi soggetti e gli spettatori, si confronta con l’opera del giovane
Gaetano Ippolito, che con lui si è formato e che ha trovato una sua cifra
stilistica nella costruzione di ritratti di città con le sue presenze
evanescenti e nella decostruzione di stereotipi.
Il progetto espositivo punta a essere metafora del dialogo intergenerazionale,
attraverso l’esposizione di archivi fotografici e la documentazione di una città
esposta e contemporaneamente nascosta. I lavori ripercorrono diverse fasi della
vita degli autori e della città e, pur scorrendo parallelamente e con
indipendenza artistica, creano una continuità visiva e temporale.
“Il percorso tracciato dal primo Bando Arte realizzato dal Comune di Napoli
arriva a Scampia con il progetto di Mario Spada e Gaetano Ippolito, che
abbraccia pienamente gli indirizzi di politica culturale tracciati
dall’Amministrazione Manfredi contribuendo alla visione di policentrismo urbano
che da tempo si sta attuando nella nostra città”, dichiara Sergio Locoratolo,
coordinatore delle politiche culturali del Comune di Napoli. “Affabulazione, il
Maggio dei Monumenti, questa mostra e tutte le attività culturali realizzate
negli ultimi tre anni stanno dimostrando che il policentrismo non è uno slogan,
ma è la sintesi di una realtà che andava solo sostenuta e svelata. Napoli è
città dai molti centri, perché ogni quartiere sa esprimere creatività, idee,
storia, bellezza”.
LA MOSTRA – L’allestimento, visitabile gratuitamente dal 24 ottobre al 31
dicembre 2024, è accolto dal centro Chikù (aperto dal lunedì al venerdì dalle 9
alle 15, gli altri giorni su prenotazione al numero 081 014 5681 e 3931559433),
attraversato abitualmente da un target intergenerazionale di provenienza locale,
cittadina, internazionale, e sarà realizzato in collaborazione con il Moss,
primo ecomuseo diffuso Scampia, spazio di memoria viva che raccoglie patrimoni
di comunità in continuo movimento, e che mette insieme arte pubblica, processi
laboratoriali e sperimentali di pedagogia, socialità, intercultura e
convivialità.
IL WORKSHOP DI FOTOGRAFIA STENOPEICA – Il progetto si caratterizza per la forte
innovatività data dall’incrocio dagli sguardi di due fotografi apprezzati dal
pubblico contemporaneo appartenenti però a generazioni differenti, che riescono
a raccontare margini e periferie di Napoli intesa come una qualunque città
contemporanea. La mostra diventa, così, punto di partenza di un percorso di
inchiesta sociale a cura di chi rom e…chi no, che vedrà il coinvolgimento di 15
giovani della città, attraverso una call pubblica lanciata a fine ottobre, in un
laboratorio di narrazione e sulla fotografia stenopeica condotto da Mario Spada,
per raccontare con tempi lunghi di osservazione critica un quartiere che si
trova ad affrontare un passaggio di trasformazione epocale.
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GIORNATA DELLA MEMORIA 2025
Nel Giorno della Memoria, vogliamo ricordare anche un genocidio dimenticato per
anni e riconosciuto molto tardi, quello di rom e sinti, con il termine Porrajmos
che in lingua romanì significa “divoramento” oppure Samudaripen che significa
“tutti morti”. È una storia di cui ancora oggi faticosamente si sta ricostruendo
la memoria, una memoria non scritta, grazie a gruppi internazionali di storici e
appassionati, secondo i quali morirono almeno 500mila persone.
Chi rom e…chi no ha partecipato al progetto internazionale Tracer –
Transformative Roma Art and Culture for European Remembrance – iniziativa
biennale finanziata dal programma Europeo Cerv per sensibilizzare soprattutto le
nuove generazioni sull’importanza della memoria condivisa di questa tragedia.
Per il gruppo di Napoli, il progetto Tracer è stata una lunga immersione in
acque sconosciutissime.
Le ragazze e i ragazzi che hanno costituito il gruppo, ci hanno seguito con
fiducia e curiosità in una avventura storica che fino a quel momento non
conoscevano e non li aveva riguardati se non in maniera indiretta. Per entrarci
e iniziare a percorrerla abbiamo dovuto articolare un lungo e comprensibile
percorso pedagogico artistico, culturale.
Seconda generazione di rom migranti dai paesi della ex Jugoslavia, in
particolare Serbia, Macedonia, Bosnia, Croazia, alcuni di loro già genitori di
una terza generazione di piccolissimi, i giovani di Napoli hanno portato con
coraggio tutto il proprio vissuto di abitanti dei campi informali dell’area
metropolitana, da Scampia a Giugliano in Campania, con tutto ciò che ne
consegue.
Figlie e figli, nipoti di nonne e nonni che sono dovuti scappare dalla guerra
nei Balcani, conservano nella memoria e nei racconti familiari soprattutto il
vissuto delle pulizie etniche e il trauma della cancellazione di interi paesi,
archivi, anagrafi, che si ripercuote ancora oggi sulla questione dei documenti e
sulla difficile trafila per ottenerli, nonostante siano nati qui così come i
loro figli.
Il racconto dell’Olocausto e del Porrajmos/Samudaripen è iniziato come una
favola macabra che si svolgeva in un passato fumoso, fino a che piano piano non
si sono definiti i contorni attraverso l’utilizzo di materiali audiovisivi, la
raccolta di testimonianze dirette, in particolare di esponenti delle comunità
rom e sinte di altre regioni d’Italia, e infine il viaggio ad Auschwitz che ha
materializzato le parole dolorose, la sofferenza indicibile, le storie di
comunità disgregate e di vite colpite a morte da un disegno istituzionale
atroce, che oggi, finalmente e faticosamente si cercano di portare alla luce.
Con persone di tutta Europa e un gruppo di giovani rom e italiani provenienti da
Scampia e Giugliano, abbiamo visitato Aushwitz dove nel blocco numero 13 erano
state internate le famiglie rom e sinti. Lì è conservata la memoria e le storie
di famiglie normali che vivevano tranquillamente in Germania fino all’avvento
del nazismo e del terribile “registro della piaga zingara”.
Tra queste c’era la famiglia Rosenberg, che viveva a Berlino. Quando i nazisti
decisero di “ripulire la città dagli zingari” per le olimpiadi del 1936
iniziarono a portare le famiglie nel campo di Berlino Marzan, da cui dopo poco
verranno portati ad Auschwitz e uccisi. Quelli che furono maggiormente colpiti
furono i bambini. Come quelli che finirono nell’orfanotrofio di Mulfingen, per
essere studiati da Eva Justin, assistente di Robert Ritter direttore
dell’”ufficio igiene razza” che fu aperto nel 37 per trovare una risposta
scientifica al genocidio. Furono tutti portati a morire ad Auschwitz. Si salvò
solo una bambina che una suora riuscì a salvare dandole un ceffone poco prima
che salisse sull’autobus. “Tu non vai perché sei malata, non puoi andare in
gita”, le disse. Queste sono alcune delle storie raccontate nel documentario del
progetto Tracer “Memorijako Drom”, che significa “tracce di memoria”.
Ad Auschwitz furono deportati circa 23mila sinti e rom. Di questi 21mila sono
stati uccisi.
Circa 10mila erano bambini, 380 nati nel campo. Lì Mengele aveva la sua baracca
dove faceva i suoi atroci esperimenti. Pochi sanno che furono numerosi i Romanì
che, scampati dalle deportazioni di massa, si unirono alla Resistenza. La loro
conoscenza dei territori, soprattutto di quelli dell’Europa orientale, li rese
indispensabili come staffette, per non parlare della loro capacità di lavorare
in gruppo e della loro forza.
Nel bel mezzo dei laboratori di Tracer, come una specie di monito verso chi non
ha memoria, accade un fatto terribile: la morte della piccola Michelle di 6
anni, folgorata dalla corrente elettrica il 13 gennaio 2024 nel campo di via
Carraffiello a Giugliano in Campania. Per molti di noi, rom e non rom, non si
può considerare un incidente. È la diretta conseguenza di un sistema che ha
relegato centinaia di persone a vivere in condizioni talmente disumane che il
vero miracolo è che notizie del genere non ci colpiscano come pugni ogni giorno.
La responsabilità della morte di Michelle ricade su tutte le amministrazioni
pubbliche, sui governanti, sui politici e su un’intera collettività che
consentono che a pochi passi dalle proprie case, accanto ai campi coltivati di
frutta e verdura che finiscono nei mercati e sulle tavole di tutti, famiglie
composte per lo più da giovani adulti, adolescenti, bambini, vivano
arrangiandosi come possono, appena raggiungendo la soglia della sopravvivenza,
in un divario di disuguaglianza inaccettabile che dovrebbe generare una rivolta
permanente.
La storia del passato si intreccia con la storia presente, in questa maniera
crudele ma rivelatrice. Di fatto, da generazioni, intere comunità rom vengono
ripudiate, isolate, disprezzate, annullate, isolate. Con i giovani del gruppo di
Tracer, alcuni dei quali abitanti di quel campo di Giugliano che vengono
letteralmente bloccati dalle forze dell’ordine e con difficoltà riescono a a
raggiungere i laboratori, iniziamo a riflettere più concretamente sui
parallelismi tra passato presente e futuro, sulla esigenza di ricordare
ricostruire e non dimenticare, sulle ripercussioni concrete nella vita di tutti
i giorni di politiche scellerate che ci sembrano così lontane, e invece.
Ripercorriamo insieme ai giovani di Tracer e ai ragazzi con cui facciamo i
laboratori, le storie delle comunità rom mentre ci avviciniamo alla Giornata
della Memoria che diventa una commemorazione molto più comprensibile e sentita
di quanto non sia mai stata.
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MONO CROMATICO
A SCAMPIA IL MURALES DI MONO CARRASCO: L’ARTISTA CILENO CHE FA PARLARE I MURI
“Con il mio muralismo cerco di rappresentare una società dove ognuno ha diritto
ad essere persona”. Mono Hector Carrasco, 70 anni, grafico, muralista, promotore
culturale, fuggito dal Cile di Pinochet, definisce così la sua arte. E una delle
sue opere colora ora uno dei muri di Scampia, in particolare una facciata della
scuola Pertini in via Fratelli Cervi. Mono l’ha dipinta insieme agli alunni
della scuola e a quanti hanno voluto partecipare, perché “non importa saper
disegnare, è l’idea quella che conta”.
IL MURALES DI MONO CARRASCO A SCAMPIA: TRA PERTINI E NERUDA I SOGNI DEI BAMBINI
Così dall’ 8 all’11 novembre mono carrasco ha dipinto con i suoi colori vivaci
il muro della scuola di Scampia. Il primo giorno, aiutato dagli alunni della
scuola ha preparato il muro con la pittura bianca. La sera ha proiettato il
disegno e, insieme a un gruppo di volontari, ne ha tracciato i contorni. Il
sabato e la domenica poi è stata la volta del colore in compagnia si un gruppo
di volontari, abitanti di Scampia. Il lunedì la grande festa con l’inaugurazione
del murales sotto gli occhi stupiti degli alunni della scuola. Quel muro grigio
dell’edificio ora ha lasciato lo spazio al volto di Sandro Pertini, su un lato,
e di Pablo Neruda dall’altro. “In mezzo ci sono i sogni dei bambini”, ha detto
Mono. E il colore spicca anche nelle giornate più grigie.
“La cosa che mi ha colpito subito è che la scuola si chiama ‘Sandro Pertini’ –
ha raccontato l’artista cileno – Per me è stato lui uno dei migliori presidenti
dell’Italia. Nel 1973, quando era presidente della Camera dei Deputati, fu il
primo politico a fare un discorso di solidarietà con il popolo cileno contro la
dittatura, per la libertà del nostro popolo”. Così l’artista ha deciso di
dipingere su un muro il volto iconico di Sandro Pertini, sull’altro Pablo
Neruda. “Quest’anno si compiono i 100 anni dalla prima edizione di un libro del
nostro poeta Premio Nobel, Pablo Neruda, ‘Venti poesie d’amore e una canzone
disperata’”. In mezzo ci sono i giochi dei bambini, i loro sogni. E soprattutto
ci sono bambini sorridenti di ogni popolazione. “Questo perché anche la società
italiana sta diventando multietnica ed è la strada giusta: una società non
razzista dove ognuno abbia diritto ad essere persona. E questa è una cosa
fondamentale”.
Alla realizzazione del murales sul muro della Pertini hanno partecipato i
bambini della scuola e tutte le persone del quartiere che hanno deciso di
contribuire a questa opera. “Per me i murales sono arte collettiva – ha spiegato
il muralista – nel senso che la gente non viene sono a dipingere
collettivamente. Io faccio partecipare tutti anche alla stesura del progetto da
dipingere. Anche nel caso del murales di Scampia è successo così: io ho inviato
un bozzetto che poi è stato condiviso tra le persone del posto e ognuno ha dato
una sua opinione. Con quelle idee io ho arricchito il mio progetto, ho fatto in
modo che questo bozzetto potesse contenere le opinioni degli altri, di tutti”.
CHI È MONO CARRASCO, LA STORIA DEL MURALISTA CHE FA PARLARE I MURI
Eduardo “Mono” Carrasco, nome clandestino e provvisorio, cui vero nome è Héctor
Carrasco, è nato a Santiago del Cile nel 1954. È arrivato in Italia nel 1974,
espulso dalla dittatura di Pinochet. Mono racconta che, insieme a un collettivo
di muralisti, erano diventati sgraditi alla nuova dittatura cilena per quello
che disegnavano sui muri e per il messaggio di libertà che questi trasmettevano.
Per questo motivo fu tra gli espulsi dal Cile e le opere del collettivo vennero
brutalmente cancellate. “È un raro caso al mondo di arte totalmente eliminata”,
ha detto Mono.
Per 16 anni gli è stato vietato di tornare in Cile. “Mi avevano tolto anche la
cittadinanza – continua il racconto il muralista – avevo un passaporto
stranissimo che rilasciava le Nazioni Unite, quello per gli apolidi. Si chiamava
‘carta di viaggio’ ma non la conosceva nessun poliziotto. Ogni volta che mi
fermavano perdevano ore a capire chi ero. Non c’era internet, facevano tutto per
telefono”. Una volta arrivato in Italia, con un gruppo di cileni ha continuato a
fare murales “per tener viva la solidarietà delle istituzioni e del popolo
italiano per il popolo cileno, per la libertà e la riconquista della democrazia
in Cile. Abbiamo iniziato a dipingere i muri delle città, partendo da Milano,
Bologna, Roma e altre ancora”. Mono e i suoi si sono spinti anche in altre città
d’Europa, ridando voce, attraverso i colori, alle periferie, ai diritti e alle
idee. “Andiamo nei luoghi dove la gente fa fatica a vivere – continua Carrasco –
dove la sofferenza è lampante”.
Una volta tornata la democrazia in Cile, Mono è tornato a casa, e ha ripreso in
mano i pennelli. “Ho colorato le periferie, soprattutto i quartieri dove viveva
la gente più povera – ha continuato – L’ho fatto anche a Pedro Aguirre Cerda,
sobborgo di Santiago, dove ho manifestato una forma di solidarietà concreta,
attraverso i murales, per chiedere materiale scolastico per tutti: il paradosso
è che in alcune di queste periferie cilene c’è la scuola ma le persone non hanno
i soldi per comprare matite e quaderni”.
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“L’ARTE MURARIA DEVE PORTARE UNA PROPOSTA”
Per Mono Carrasco l’arte muraria ha un grande valore sociale, non solo in
periferie come Scampia ma ovunque. “Sicuramente – ha concluso Carrasco – in
quartieri con le stesse problematiche che ha Scampia, come a Pedro Aguirre Cerda
in Cile, come Quarto Oggiaro a Milano, l’arte dovrà giocare un ruolo
preponderante per abbellire questi posti ‘brutti’, per modo di dire. Ma queste
opere devono portare un discorso concreto, una proposta. Senza pensare che il
murales risolva i problemi, ahimè. Ma certamente possono, attraverso i disegni e
i colori, abbellire e portare una proposta per far sì che queste situazioni
possano cambiare”.
SCAMPIA DAI ROMANI ALLE VELE
SCAMPIA, CONOSCERE IL PASSATO PER CAPIRE IL PRESENTE: LA STORIA DAI ROMANI ALLE
VELE
Quante storie nascoste si celano dietro i luoghi che conosciamo oggi come
periferie? E se quartieri come Scampia avessero radici più antiche e nobili di
quanto si possa immaginare? “È molto, molto importante ricostruire la storia dei
territori, soprattutto quando si parla di periferie come Scampia, in via
diacronica, quindi dall’età antica ad oggi. È importante cercare di recuperare i
vari piccoli tasselli per provare a ricomporre un puzzle per cercare di ridare
quella dignità che talvolta non hanno più”. Ne è convinta Mara Amodio, classe
1972, archeologa, attualmente ricercatrice presso l’Università degli studi
“L’Orientale” di Napoli e già docente presso l’I.T.I. Galileo Ferraris di
Scampia. Ne è convinta anche la redazione del “MOSS – Ecomuseo Diffuso” ed è
proprio per questo che ha deciso di andare ad indagare sulle origini di Scampia.
IL PERCORSO DI INCHIESTA DELLA REDAZIONE MOSS
L’esigenza di cercare le nostre origini e scavare nel passato del quartiere
nasce dall’osservazione di ciò che Scampia è diventata oggi. Solo conoscendo il
passato si può comprendere appieno il presente, ed è per questo che abbiamo
deciso di iniziare dalle origini. Il nostro obiettivo è continuare questo
percorso per esplorare e raccontare le diverse epoche del quartiere: dalle sue
radici greco-romane, alla Scampia medievale, fino al 1962, anno segnato da una
legge, la 167, che ha lasciato un’impronta significativa sul territorio. E poi,
le Vele: il loro progetto, la costruzione, i crolli e l’abbandono, ultimo
capitolo di una lunga serie di cambiamenti epocali che è necessario comprendere
per immaginare un futuro migliore.
Abbiamo avviato questa indagine sociale consultando l’Archivio Storico di
Napoli, visitando la Villa Romana di via Tancredi Galimberti intervistando
esperti come la professoressa Amodio, e raccogliendo testimonianze preziose da
figure come Mirella La Magna e Aldo Bifulco, custodi di storie tramandate e
testimoni diretti delle trasformazioni del quartiere. Questo lavoro è importante
perché ci permette di dare voce a un territorio spesso frainteso o dimenticato.
Scampia non è solo il presente di cui si parla frequentemente in modo negativo,
ma è anche il risultato di secoli di storia, trasformazioni e stratificazioni
culturali. Abbiamo deciso di intraprendere questo percorso perché crediamo
fermamente che conoscere il passato renda una comunità più consapevole e
preparata a costruire il futuro che desidera. Raccontare Scampia significa
ridare dignità a un quartiere, mostrando che dietro le sue difficoltà si cela
un’identità forte e complessa, che merita di essere conosciuta e valorizzata.
LE ORIGINI GRECO-ROMANE DI SCAMPIA
Scampia è il quartiere più giovane di Napoli. Lo è sia per la media dell’età
della popolazione, sia per le sue costruzioni relativamente recenti. Cercando e
studiando, abbiamo scoperto che il quartiere, situato nell’area Nord della
città, ha origini più antiche di quanto si possa pensare. Come se il presente
fosse stato troppo ingombrante su questo territorio da far dimenticare il
passato che riaffiora con prepotenza in alcune strade, come succede, ad esempio,
con i resti della Villa Romana. Il cemento, negli anni, ha cercato di
soffocarli, di sopprimere quella memoria che però quelle poche pietre rimaste in
mezzo all’asfalto, hanno reso indelebili. Siamo partiti da qui quando ci siamo
chiesti come fosse Scampia all’epoca di quella Villa. E cosa sono quelle rovine.
Abbiamo immaginato come potesse apparire quello stesso luogo all’epoca dei
romani.
Per farci meglio una idea abbiamo chiesto alla Professoressa Amodio, che da anni
svolge attività di ricerca e studio sul territorio di Scampia e zone limitrofe,
di aiutarci a ricomporre i pezzi di quella storia antica che nessuno ricorda
più.
PERCHÉ SCAMPIA SI CHIAMA COSÌ
Ci sono varie teorie sull’origine del nome “Scampia”: infatti in napoletano,
verace, con il termine “Scamp” si indica un campo da coltivazione e sappiamo per
certo che il terreno dell’attuale ottava municipalità era molto fertile. Altra
teoria interessante vede il quartiere prendere il nome da una Masseria, sita tra
i casali di Secondigliano e Melito, chiamata “La Scampia”. Nello specifico
Scampia faceva parte del territorio extraurbano rispetto all’antica Neapoli,
questo territorio era molto fertile e quindi interessata dalla presenza di ville
rustiche dedite all’agricoltura e al pascolo del bestiame. Era interessata dal
passaggio delle strade che collegavano Capua ed Atella. “Qui sono stati
rinvenuti resti di ville romane come quella in via Tancredi Galiberti – ha detto
Amodio, continuando – Così come un’altra, ben conservata, si trova poco lontano,
a Cupa Marfella a Marianella”. La Villa di Cupa Marfella a Marianella, scavata
dopo il terremoto degli anni ’80, si conserva in modo molto articolato in tutti
i loro vani e strutture e ci dà anche un’idea di come si producevano all’epoca
prodotti come l’olio e il vino. “Dall’analisi di questi resti, si può capire
come la vita sia cambiata dall’età romana all’alto Medioevo”.
LA NECROPOLI ELLENISTICA
Una delle scoperte più importanti fatte sul territorio è proprio una necropoli
ellenistica, ovvero resti di tombe di vari materiali, nella zona di fronte al
carcere di Secondigliano. Quest’ultima è stata rinvenuta nella seconda metà del
900’, ma solo pochi anni fa in località Case Vecchie, sempre a Scampia, sono
stati ritrovati resti frammentari di una villa rurale. “I resti della villa
Romana di via Galimberti – ha continuato la ricercatrice – anche se molto
esigui, grazie anche alle tante testimonianze delle fonti letterarie, ci dicono
che era sicuramente una fattoria. In genere le ville rustiche che appunto erano
dedite alla produzione agricola in questa zona, non erano di grandi dimensioni,
erano in genere ville monofamiliari legate ad una produzione per l’uso della
famiglia e magari per una piccola vendita al mercato locale”.
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DALLE VILLE ROMANE AL MEDIOEVO
Scavando all’interno dell’Archivio di Stato di Napoli abbiamo trovato due
documenti significativi per la nostra inchiesta. Uno strumento di vendita,
datato 12 giugno 1608, relativo al passaggio di un canone su una masseria
chiamata “La Scampia” da Cornelia di Sangro a Placido di Sangro, situata tra i
casali di Secondigliano e Melito; e una “Pianta della terra Scampia et
seminatoria” venduta da Giulio Taglialatela a Giovanni Francesco Altomare nel
1583, localizzata nella zona di Gaudo, Napoli.
Sulla fase medievale del Casale di Piscinola, limitrofo a Scampia, si sa molto
poco ed è difficile ricostruire l’aspetto di luoghi in quell’epoca. Secondo
quanto ricostruito da Franco Biagio Sica nel volume dal titolo “Viaggio nella
mia terra. Memoria storica sul Casale di Piscinola” (Napoli, 1989), possiamo
affermare con sicurezza che in questo territorio vi erano almeno due chiese. Una
dedicata al martire San Sossio, processato insieme a San Gennaro nel 305 a
Pozzuoli, attualmente patrono di Miseno e un’altra chiesa dedicata al Salvatore,
vari documenti databili dal X al XIII secolo ci informano che il territorio era
detto Terra del Salvatore. Questo nome deriva dal fatto che vi erano presenti
delle “grance”, cioè appezzamenti di terreno coltivato, appartenenti ai così
detti “monaci del Salvatore” non altro che i monaci benedettini che vivevano in
un monastero a Napoli posto “nell’isola del Salvatore” (dove ad oggi è ubicato
il Castel dell’Ovo).
Infine dei documenti databili dalla fine del XV al XVIII secolo, attestano che
vari monasteri napoletani, come quello di Santa Patrizia, Sant’Agostino Maggiore
alla Zecca e San Giovanni a Carbonara, avevano terreni di proprietà tra il
Casale di Piscinola e Scampia.
SCAMPIA, UNA STORIA ANTICA DA CONOSCERE
All’epoca degli antichi romani, Scampia era un territorio a vasta vocazione
agricola, una caratteristica che è rimasta ancora oggi. Infatti, Scampia è
ancora il quartiere più verde di Napoli. Un verde che, però, paradossalmente è
spesso abbandonato o negato. Un esempio lampante di questo è la Villa Comunale,
chiusa al pubblico da molti mesi senza una spiegazione apparente. Questo
paradosso tra la Scampia agricola del passato e la Scampia verde ma trascurata
del presente è un segnale di un territorio che, nonostante la sua storia e la
sua potenzialità, continua a soffrire di abbandono e disinteresse. È proprio su
questo che la nostra redazione vuole indagare, cercando di capire le ragioni di
tale stato. Per non restare passivi di fronte a fenomeni che ciclicamente si
abbattono sul quartiere, negando ai cittadini il diritto di vivere al meglio il
proprio territorio.
di Pasquale Frattini