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Spina Tremula
SPINA TREMULA MOSTRA FOTOGRAFICA DI MARIO SPADA E GAETANO IPPOLITO A SCAMPIA “SPINA TREMULA”, LA MOSTRA FOTOGRAFICA DI MARIO SPADA E GAETANO IPPOLITO   Dal 24 ottobre al 15 gennaio 2025 sarà possibile visitare gratuitamente la mostra fotografica dal titolo “Spina tremula” di Mario Spada e Gaetano Ippolito, allestita negli spazi del centro Chikù. La mostra, curata da Chi rom e…Chi no e finanziata dal Comune di Napoli nell’ambito della programmazione di arte contemporanea 2024, vedrà il coinvolgimento di 15 giovani della città in un laboratorio di narrazione e sulla fotografia stenopeica condotto da Mario Spada. Giovedì 24 ottobre è stata inaugurata presso il centro Chikù a Scampia, in Largo della Cittadinanza Attiva, la mostra fotografica di Mario Spada e Gaetano Ippolito dal titolo “Spina Tremula”, nata da una idea di Chi rom e…Chi no e Mario Spada e promossa e finanziata dal Comune di Napoli nell’ambito della programmazione di arte contemporanea 2024. La mostra intreccia e mette in dialogo le fotografie dei due autori, due sguardi sulla città di Napoli che attraversano trenta anni di storie, strade, persone, piccole fatiche quotidiane, grandi eventi. L’esperienza di lungo corso del fotografo Mario Spada, che con la sua fotografia racconta con precisione e cura i molteplici mondi in cui si immerge, creando una forte relazione tra le immagini, i suoi soggetti e gli spettatori, si confronta con l’opera del giovane Gaetano Ippolito, che con lui si è formato e che ha trovato una sua cifra stilistica nella costruzione di ritratti di città con le sue presenze evanescenti e nella decostruzione di stereotipi. Il progetto espositivo punta a essere metafora del dialogo intergenerazionale, attraverso l’esposizione di archivi fotografici e la documentazione di una città esposta e contemporaneamente nascosta. I lavori ripercorrono diverse fasi della vita degli autori e della città e, pur scorrendo parallelamente e con indipendenza artistica, creano una continuità visiva e temporale. “Il percorso tracciato dal primo Bando Arte realizzato dal Comune di Napoli arriva a Scampia con il progetto di Mario Spada e Gaetano Ippolito, che abbraccia pienamente gli indirizzi di politica culturale tracciati dall’Amministrazione Manfredi contribuendo alla visione di policentrismo urbano che da tempo si sta attuando nella nostra città”, dichiara Sergio Locoratolo, coordinatore delle politiche culturali del Comune di Napoli. “Affabulazione, il Maggio dei Monumenti, questa mostra e tutte le attività culturali realizzate negli ultimi tre anni stanno dimostrando che il policentrismo non è uno slogan, ma è la sintesi di una realtà che andava solo sostenuta e svelata. Napoli è città dai molti centri, perché ogni quartiere sa esprimere creatività, idee, storia, bellezza”.   LA MOSTRA –  L’allestimento, visitabile gratuitamente dal 24 ottobre al 31 dicembre 2024, è accolto dal centro Chikù (aperto dal lunedì al venerdì dalle 9 alle 15, gli altri giorni su prenotazione al numero 081 014 5681 e  3931559433), attraversato abitualmente da un target intergenerazionale di provenienza locale, cittadina, internazionale, e sarà realizzato in collaborazione con il Moss, primo ecomuseo diffuso Scampia, spazio di memoria viva che raccoglie patrimoni di comunità in continuo movimento, e che mette insieme arte pubblica, processi laboratoriali e sperimentali di pedagogia, socialità, intercultura e convivialità.   IL WORKSHOP DI FOTOGRAFIA STENOPEICA – Il progetto si caratterizza per la forte innovatività data dall’incrocio dagli sguardi di due fotografi apprezzati dal pubblico contemporaneo appartenenti però a generazioni differenti, che riescono a raccontare margini e periferie di Napoli intesa come una qualunque città contemporanea. La mostra diventa, così, punto di partenza di un percorso di inchiesta sociale a cura di chi rom e…chi no, che vedrà il coinvolgimento di 15 giovani della città, attraverso una call pubblica lanciata a fine ottobre, in un laboratorio di narrazione e sulla fotografia stenopeica condotto da Mario Spada, per raccontare con tempi lunghi di osservazione critica un quartiere che si trova ad affrontare un passaggio di trasformazione epocale. Precedente Successivo
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Giornata della Memoria 2025
GIORNATA DELLA MEMORIA 2025 Nel Giorno della Memoria, vogliamo ricordare anche un genocidio dimenticato per anni e riconosciuto molto tardi, quello di rom e sinti, con il termine Porrajmos che in lingua romanì significa “divoramento” oppure Samudaripen che significa “tutti morti”. È una storia di cui ancora oggi faticosamente si sta ricostruendo la memoria, una memoria non scritta, grazie a gruppi internazionali di storici e appassionati, secondo i quali morirono almeno 500mila persone.   Chi rom e…chi no ha partecipato al progetto internazionale Tracer – Transformative Roma Art and Culture for European Remembrance – iniziativa biennale finanziata dal programma Europeo Cerv per sensibilizzare soprattutto le nuove generazioni sull’importanza della memoria condivisa di questa tragedia. Per il gruppo di Napoli, il progetto Tracer è stata una lunga immersione in acque sconosciutissime. Le ragazze e i ragazzi che hanno costituito il gruppo, ci hanno seguito con fiducia e curiosità in una avventura storica che fino a quel momento non conoscevano e non li aveva riguardati se non in maniera indiretta. Per entrarci e iniziare a percorrerla abbiamo dovuto articolare un lungo e comprensibile percorso pedagogico artistico, culturale. Seconda generazione di rom migranti dai paesi della ex Jugoslavia, in particolare Serbia, Macedonia, Bosnia, Croazia, alcuni di loro già genitori di una terza generazione di piccolissimi, i giovani di Napoli hanno portato con coraggio tutto il proprio vissuto di abitanti dei campi informali dell’area metropolitana, da Scampia a Giugliano in Campania, con tutto ciò che ne consegue. Figlie e figli, nipoti di nonne e nonni che sono dovuti scappare dalla guerra nei Balcani, conservano nella memoria e nei racconti familiari soprattutto il vissuto delle pulizie etniche e il trauma della cancellazione di interi paesi, archivi, anagrafi, che si ripercuote ancora oggi sulla questione dei documenti e sulla difficile trafila per ottenerli, nonostante siano nati qui così come i loro figli. Il racconto dell’Olocausto e del Porrajmos/Samudaripen è iniziato come una favola macabra che si svolgeva in un passato fumoso, fino a che piano piano non si sono definiti i contorni attraverso l’utilizzo di materiali audiovisivi, la raccolta di testimonianze dirette, in particolare di esponenti delle comunità rom e sinte di altre regioni d’Italia, e infine il viaggio ad Auschwitz che ha materializzato le parole dolorose, la sofferenza indicibile, le storie di comunità disgregate e di vite colpite a morte da un disegno istituzionale atroce, che oggi, finalmente e faticosamente si cercano di portare alla luce. Con persone di tutta Europa e un gruppo di giovani rom e italiani provenienti da Scampia e Giugliano, abbiamo visitato Aushwitz dove nel blocco numero 13 erano state internate le famiglie rom e sinti. Lì è conservata la memoria e le storie di famiglie normali che vivevano tranquillamente in Germania fino all’avvento del nazismo e del terribile “registro della piaga zingara”. Tra queste c’era la famiglia Rosenberg, che viveva a Berlino. Quando i nazisti decisero di “ripulire la città dagli zingari” per le olimpiadi del 1936 iniziarono a portare le famiglie nel campo di Berlino Marzan, da cui dopo poco verranno portati ad Auschwitz e uccisi.  Quelli che furono maggiormente colpiti furono i bambini. Come quelli che finirono nell’orfanotrofio di Mulfingen, per essere studiati da Eva Justin, assistente di Robert Ritter direttore dell’”ufficio igiene razza” che fu aperto nel 37 per trovare una risposta scientifica al genocidio. Furono tutti portati a morire ad Auschwitz. Si salvò solo una bambina che una suora riuscì a salvare dandole un ceffone poco prima che salisse sull’autobus. “Tu non vai perché sei malata, non puoi andare in gita”, le disse. Queste sono alcune delle storie raccontate nel documentario del progetto Tracer “Memorijako Drom”, che significa “tracce di memoria”.   Ad Auschwitz furono deportati circa 23mila sinti e rom. Di questi 21mila sono stati uccisi. Circa 10mila erano bambini, 380 nati nel campo. Lì Mengele aveva la sua baracca dove faceva i suoi atroci esperimenti. Pochi sanno che furono numerosi i Romanì che, scampati dalle deportazioni di massa, si unirono alla Resistenza. La loro conoscenza dei territori, soprattutto di quelli dell’Europa orientale, li rese indispensabili come staffette, per non parlare della loro capacità di lavorare in gruppo e della loro forza. Nel bel mezzo dei laboratori di Tracer, come una specie di monito verso chi non ha memoria, accade un fatto terribile: la morte della piccola Michelle di 6 anni, folgorata dalla corrente elettrica il 13 gennaio 2024 nel campo di via Carraffiello a Giugliano in Campania. Per molti di noi, rom e non rom, non si può considerare un incidente. È la diretta conseguenza di un sistema che ha relegato centinaia di persone a vivere in condizioni talmente disumane che il vero miracolo è che notizie del genere non ci colpiscano come pugni ogni giorno. La responsabilità della morte di Michelle ricade su tutte le amministrazioni pubbliche, sui governanti, sui politici e su un’intera collettività che consentono che a pochi passi dalle proprie case, accanto ai campi coltivati di frutta e verdura che finiscono nei mercati e sulle tavole di tutti, famiglie composte per lo più da giovani adulti, adolescenti, bambini, vivano arrangiandosi come possono, appena raggiungendo la soglia della sopravvivenza, in un divario di disuguaglianza inaccettabile che dovrebbe generare una rivolta permanente. La storia del passato si intreccia con la storia presente, in questa maniera crudele ma rivelatrice. Di fatto, da generazioni, intere comunità rom vengono ripudiate, isolate, disprezzate, annullate, isolate. Con i giovani del gruppo di Tracer, alcuni dei quali abitanti di quel campo di Giugliano che vengono letteralmente bloccati dalle forze dell’ordine e con difficoltà riescono a a raggiungere i laboratori, iniziamo a riflettere più concretamente sui parallelismi tra passato presente e futuro, sulla esigenza di ricordare ricostruire e non dimenticare, sulle ripercussioni concrete nella vita di tutti i giorni di politiche scellerate che ci sembrano così lontane, e invece. Ripercorriamo insieme ai giovani di Tracer e ai ragazzi con cui facciamo i laboratori, le storie delle comunità rom mentre ci avviciniamo alla Giornata della Memoria che diventa una commemorazione molto più comprensibile e sentita di quanto non sia mai stata. Precedente Successivo
IUMANS OV SCAMPEEA
Mono Cromatico
MONO CROMATICO A SCAMPIA IL MURALES DI MONO CARRASCO: L’ARTISTA CILENO CHE FA PARLARE I MURI   “Con il mio muralismo cerco di rappresentare una società dove ognuno ha diritto ad essere persona”. Mono Hector Carrasco, 70 anni, grafico, muralista, promotore culturale, fuggito dal Cile di Pinochet, definisce così la sua arte. E una delle sue opere colora ora uno dei muri di Scampia, in particolare una facciata della scuola Pertini in via Fratelli Cervi. Mono l’ha dipinta insieme agli alunni della scuola e a quanti hanno voluto partecipare, perché “non importa saper disegnare, è l’idea quella che conta”.   IL MURALES DI MONO CARRASCO A SCAMPIA: TRA PERTINI E NERUDA I SOGNI DEI BAMBINI   Così dall’ 8 all’11 novembre mono carrasco ha dipinto con i suoi colori vivaci il muro della scuola di Scampia. Il primo giorno, aiutato dagli alunni della scuola ha preparato il muro con la pittura bianca. La sera ha proiettato il disegno e, insieme a un gruppo di volontari, ne ha tracciato i contorni. Il sabato e la domenica poi è stata la volta del colore in compagnia si un gruppo di volontari, abitanti di Scampia. Il lunedì la grande festa con l’inaugurazione del murales sotto gli occhi stupiti degli alunni della scuola. Quel muro grigio dell’edificio ora ha lasciato lo spazio al volto di Sandro Pertini, su un lato, e di Pablo Neruda dall’altro. “In mezzo ci sono i sogni dei bambini”, ha detto Mono. E il colore spicca anche nelle giornate più grigie. “La cosa che mi ha colpito subito è che la scuola si chiama ‘Sandro Pertini’ – ha raccontato l’artista cileno – Per me è stato lui uno dei migliori presidenti dell’Italia. Nel 1973, quando era presidente della Camera dei Deputati, fu il primo politico a fare un discorso di solidarietà con il popolo cileno contro la dittatura, per la libertà del nostro popolo”. Così l’artista ha deciso di dipingere su un muro il volto iconico di Sandro Pertini, sull’altro Pablo Neruda. “Quest’anno si compiono i 100 anni dalla prima edizione di un libro del nostro poeta Premio Nobel, Pablo Neruda, ‘Venti poesie d’amore e una canzone disperata’”. In mezzo ci sono i giochi dei bambini, i loro sogni. E soprattutto ci sono bambini sorridenti di ogni popolazione. “Questo perché anche la società italiana sta diventando multietnica ed è la strada giusta: una società non razzista dove ognuno abbia diritto ad essere persona. E questa è una cosa fondamentale”. Alla realizzazione del murales sul muro della Pertini hanno partecipato i bambini della scuola e tutte le persone del quartiere che hanno deciso di contribuire a questa opera. “Per me i murales sono arte collettiva – ha spiegato il muralista – nel senso che la gente non viene sono a dipingere collettivamente. Io faccio partecipare tutti anche alla stesura del progetto da dipingere. Anche nel caso del murales di Scampia è successo così: io ho inviato un bozzetto che poi è stato condiviso tra le persone del posto e ognuno ha dato una sua opinione. Con quelle idee io ho arricchito il mio progetto, ho fatto in modo che questo bozzetto potesse contenere le opinioni degli altri, di tutti”. CHI È MONO CARRASCO, LA STORIA DEL MURALISTA CHE FA PARLARE I MURI Eduardo “Mono” Carrasco, nome clandestino e provvisorio, cui vero nome è Héctor Carrasco, è nato a Santiago del Cile nel 1954. È arrivato in Italia nel 1974, espulso dalla dittatura di Pinochet. Mono racconta che, insieme a un collettivo di muralisti, erano diventati sgraditi alla nuova dittatura cilena per quello che disegnavano sui muri e per il messaggio di libertà che questi trasmettevano. Per questo motivo fu tra gli espulsi dal Cile e le opere del collettivo vennero brutalmente cancellate. “È un raro caso al mondo di arte totalmente eliminata”, ha detto Mono. Per 16 anni gli è stato vietato di tornare in Cile. “Mi avevano tolto anche la cittadinanza – continua il racconto il muralista – avevo un passaporto stranissimo che rilasciava le Nazioni Unite, quello per gli apolidi. Si chiamava ‘carta di viaggio’ ma non la conosceva nessun poliziotto. Ogni volta che mi fermavano perdevano ore a capire chi ero. Non c’era internet, facevano tutto per telefono”. Una volta arrivato in Italia, con un gruppo di cileni ha continuato a fare murales “per tener viva la solidarietà delle istituzioni e del popolo italiano per il popolo cileno, per la libertà e la riconquista della democrazia in Cile. Abbiamo iniziato a dipingere i muri delle città, partendo da Milano, Bologna, Roma e altre ancora”. Mono e i suoi si sono spinti anche in altre città d’Europa, ridando voce, attraverso i colori, alle periferie, ai diritti e alle idee. “Andiamo nei luoghi dove la gente fa fatica a vivere – continua Carrasco – dove la sofferenza è lampante”. Una volta tornata la democrazia in Cile, Mono è tornato a casa, e ha ripreso in mano i pennelli. “Ho colorato le periferie, soprattutto i quartieri dove viveva la gente più povera – ha continuato – L’ho fatto anche a Pedro Aguirre Cerda, sobborgo di Santiago, dove ho manifestato una forma di solidarietà concreta, attraverso i murales, per chiedere materiale scolastico per tutti: il paradosso è che in alcune di queste periferie cilene c’è la scuola ma le persone non hanno i soldi per comprare matite e quaderni”. Precedente Successivo Precedente Successivo “L’ARTE MURARIA DEVE PORTARE UNA PROPOSTA”   Per Mono Carrasco l’arte muraria ha un grande valore sociale, non solo in periferie come Scampia ma ovunque. “Sicuramente  – ha concluso Carrasco – in quartieri con le stesse problematiche che ha Scampia, come a Pedro Aguirre Cerda in Cile, come Quarto Oggiaro a Milano, l’arte dovrà giocare un ruolo preponderante per abbellire questi posti ‘brutti’, per modo di dire. Ma queste opere devono portare un discorso concreto, una proposta. Senza pensare che il murales risolva i problemi, ahimè. Ma certamente possono, attraverso i disegni e i colori, abbellire e portare una proposta per far sì che queste situazioni possano cambiare”.
IUMANS OV SCAMPEEA
Scampia dai Romani alle Vele
SCAMPIA DAI ROMANI ALLE VELE SCAMPIA, CONOSCERE IL PASSATO PER CAPIRE IL PRESENTE: LA STORIA DAI ROMANI ALLE VELE   Quante storie nascoste si celano dietro i luoghi che conosciamo oggi come periferie? E se quartieri come Scampia avessero radici più antiche e nobili di quanto si possa immaginare? “È molto, molto importante ricostruire la storia dei territori, soprattutto quando si parla di periferie come Scampia, in via diacronica, quindi dall’età antica ad oggi. È importante cercare di recuperare i vari piccoli tasselli per provare a ricomporre un puzzle per cercare di ridare quella dignità che talvolta non hanno più”. Ne è convinta Mara Amodio, classe 1972, archeologa, attualmente ricercatrice presso l’Università degli studi “L’Orientale” di Napoli e già docente presso l’I.T.I. Galileo Ferraris di Scampia. Ne è convinta anche la redazione del “MOSS – Ecomuseo Diffuso” ed è proprio per questo che ha deciso di andare ad indagare sulle origini di Scampia.   IL PERCORSO DI INCHIESTA DELLA REDAZIONE MOSS   L’esigenza di cercare le nostre origini e scavare nel passato del quartiere nasce dall’osservazione di ciò che Scampia è diventata oggi. Solo conoscendo il passato si può comprendere appieno il presente, ed è per questo che abbiamo deciso di iniziare dalle origini. Il nostro obiettivo è continuare questo percorso per esplorare e raccontare le diverse epoche del quartiere: dalle sue radici greco-romane, alla Scampia medievale, fino al 1962, anno segnato da una legge, la 167, che ha lasciato un’impronta significativa sul territorio. E poi, le Vele: il loro progetto, la costruzione, i crolli e l’abbandono, ultimo capitolo di una lunga serie di cambiamenti epocali che è necessario comprendere per immaginare un futuro migliore. Abbiamo avviato questa indagine sociale consultando l’Archivio Storico di Napoli, visitando la Villa Romana di via Tancredi Galimberti intervistando esperti come la professoressa Amodio, e raccogliendo testimonianze preziose da figure come Mirella La Magna e Aldo Bifulco, custodi di storie tramandate e testimoni diretti delle trasformazioni del quartiere. Questo lavoro è importante perché ci permette di dare voce a un territorio spesso frainteso o dimenticato. Scampia non è solo il presente di cui si parla frequentemente in modo negativo, ma è anche il risultato di secoli di storia, trasformazioni e stratificazioni culturali. Abbiamo deciso di intraprendere questo percorso perché crediamo fermamente che conoscere il passato renda una comunità più consapevole e preparata a costruire il futuro che desidera. Raccontare Scampia significa ridare dignità a un quartiere, mostrando che dietro le sue difficoltà si cela un’identità forte e complessa, che merita di essere conosciuta e valorizzata. LE ORIGINI GRECO-ROMANE DI SCAMPIA Scampia è il quartiere più giovane di Napoli. Lo è sia per la media dell’età della popolazione, sia per le sue costruzioni relativamente recenti. Cercando e studiando, abbiamo scoperto che il quartiere, situato nell’area Nord della città, ha origini più antiche di quanto si possa pensare. Come se il presente fosse stato troppo ingombrante su questo territorio da far dimenticare il passato che riaffiora con prepotenza in alcune strade, come succede, ad esempio, con i resti della Villa Romana. Il cemento, negli anni, ha cercato di soffocarli, di sopprimere quella memoria che però quelle poche pietre rimaste in mezzo all’asfalto, hanno reso indelebili. Siamo partiti da qui quando ci siamo chiesti come fosse Scampia all’epoca di quella Villa. E cosa sono quelle rovine. Abbiamo immaginato come potesse apparire quello stesso luogo all’epoca dei romani. Per farci meglio una idea abbiamo chiesto alla Professoressa Amodio, che da anni svolge attività di ricerca e studio sul territorio di Scampia e zone limitrofe, di aiutarci a ricomporre i pezzi di quella storia antica che nessuno ricorda più. PERCHÉ SCAMPIA SI CHIAMA COSÌ   Ci sono varie teorie sull’origine del nome “Scampia”: infatti in napoletano, verace, con il termine “Scamp” si indica un campo da coltivazione e sappiamo per certo che il terreno dell’attuale ottava municipalità era molto fertile. Altra teoria interessante vede il quartiere prendere il nome da una Masseria, sita tra i casali di Secondigliano e Melito, chiamata “La Scampia”. Nello specifico Scampia faceva parte del territorio extraurbano rispetto all’antica Neapoli, questo territorio era molto fertile e quindi interessata dalla presenza di ville rustiche dedite all’agricoltura e al pascolo del bestiame. Era interessata dal passaggio delle strade che collegavano Capua ed Atella. “Qui sono stati rinvenuti resti di ville romane come quella in via Tancredi Galiberti – ha detto Amodio, continuando – Così come un’altra, ben conservata, si trova poco lontano, a Cupa Marfella a Marianella”. La Villa di Cupa Marfella a Marianella, scavata dopo il terremoto degli anni ’80, si conserva in modo molto articolato in tutti i loro vani e strutture e ci dà anche un’idea di come si producevano all’epoca prodotti come l’olio e il vino. “Dall’analisi di questi resti, si può capire come la vita sia cambiata dall’età romana all’alto Medioevo”.   LA NECROPOLI ELLENISTICA   Una delle scoperte più importanti fatte sul territorio è proprio una necropoli ellenistica, ovvero resti di tombe di vari materiali, nella zona di fronte al carcere di Secondigliano. Quest’ultima è stata rinvenuta nella seconda metà del 900’, ma solo pochi anni fa in località Case Vecchie, sempre a Scampia, sono stati ritrovati resti frammentari di una villa rurale. “I resti della villa Romana di via Galimberti – ha continuato la ricercatrice – anche se molto esigui, grazie anche alle tante testimonianze delle fonti letterarie, ci dicono che era sicuramente una fattoria. In genere le ville rustiche che appunto erano dedite alla produzione agricola in questa zona, non erano di grandi dimensioni, erano in genere ville monofamiliari legate ad una produzione per l’uso della famiglia e magari per una piccola vendita al mercato locale”. Precedente Successivo DALLE VILLE ROMANE AL MEDIOEVO   Scavando all’interno dell’Archivio di Stato di Napoli abbiamo trovato due documenti significativi per la nostra inchiesta. Uno strumento di vendita, datato 12 giugno 1608, relativo al passaggio di un canone su una masseria chiamata “La Scampia” da Cornelia di Sangro a Placido di Sangro, situata tra i casali di Secondigliano e Melito; e una “Pianta della terra Scampia et seminatoria” venduta da Giulio Taglialatela a Giovanni Francesco Altomare nel 1583, localizzata nella zona di Gaudo, Napoli. Sulla fase medievale del Casale di Piscinola, limitrofo a Scampia, si sa molto poco ed è difficile ricostruire l’aspetto di luoghi in quell’epoca. Secondo quanto ricostruito da Franco Biagio Sica nel volume dal titolo “Viaggio nella mia terra. Memoria storica sul Casale di Piscinola” (Napoli, 1989), possiamo affermare con sicurezza che in questo territorio vi erano almeno due chiese. Una dedicata al martire San Sossio, processato insieme a San Gennaro nel 305 a Pozzuoli, attualmente patrono di Miseno e un’altra chiesa dedicata al Salvatore, vari documenti databili dal X al XIII secolo ci informano che il territorio era detto Terra del Salvatore. Questo nome deriva dal fatto che vi erano presenti delle “grance”, cioè appezzamenti di terreno coltivato, appartenenti ai così detti “monaci del Salvatore” non altro che i monaci benedettini che vivevano in un monastero a Napoli posto “nell’isola del Salvatore” (dove ad oggi è ubicato il Castel dell’Ovo). Infine dei documenti databili dalla fine del XV al XVIII secolo, attestano che vari monasteri napoletani, come quello di Santa Patrizia, Sant’Agostino Maggiore alla Zecca e San Giovanni a Carbonara, avevano terreni di proprietà tra il Casale di Piscinola e Scampia.   SCAMPIA, UNA STORIA ANTICA DA CONOSCERE   All’epoca degli antichi romani, Scampia era un territorio a vasta vocazione agricola, una caratteristica che è rimasta ancora oggi. Infatti, Scampia è ancora il quartiere più verde di Napoli. Un verde che, però, paradossalmente è spesso abbandonato o negato. Un esempio lampante di questo è la Villa Comunale, chiusa al pubblico da molti mesi senza una spiegazione apparente. Questo paradosso tra la Scampia agricola del passato e la Scampia verde ma trascurata del presente è un segnale di un territorio che, nonostante la sua storia e la sua potenzialità, continua a soffrire di abbandono e disinteresse. È proprio su questo che la nostra redazione vuole indagare, cercando di capire le ragioni di tale stato. Per non restare passivi di fronte a fenomeni che ciclicamente si abbattono sul quartiere, negando ai cittadini il diritto di vivere al meglio il proprio territorio.   di Pasquale Frattini
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